Mener l’enquête
Arts de faire, stratégies et tactiques d'investigation
Labarthe, Gilles,
2020, 207 pages, ISBN:978-2-88901-179-7
Quel est le comportement d’une équipe de tournage d’un film d’investigation TV confrontée à des refus d’accès aux sources? Quand et comment prend-elle la décision de recourir à la caméra cachée, à des pratiques «innovantes» ou même, «déloyales»? Quelles sont les principales stratégies et tactiques déployées pour faire face à des fonctionnaires réticents, aux nouvelles contraintes économiques et technologiques, aux risques d’uniformisation des médias?
Description
A travers une approche socio-ethnographique liant observation participante, entretiens semi-directs et récits de pratiques, ce livre propose d’étudier en détail l’évolution récente des «arts de faire» de l’enquête que les journalistes mobilisent, en tant qu’acteurs sociaux inscrits dans les relations triangulaires entre médias, pouvoirs (politiques, institutionnels, économiques…) et public.
L’auteur montre que les professionnel·le·s de l’investigation journalistique entretiennent une «nécessaire indétermination» autour de leurs pratiques. Ils recourent à des techniques d’enquête implicites, mouvantes et créatives; ceci, à la fois pour remédier aux désavantages d’une position précaire (manque de budget, de moyens…), pour contourner des problèmes d’accès aux informations gouvernementales, pour échapper à des tentatives de prise de contrôle sur leurs activités ou encore, plus récemment, pour déjouer les risques liés à la cybersurveillance.
Gilles Labarthe propose de nouveaux éléments de compréhension sur le journalisme d’investigation et ses enjeux actuels, un champ de recherche qui n’avait encore jamais été exploré de manière approfondie en Suisse, sous cet angle. Il apporte aussi de nouvelles notions et des clés de lecture concernant la déontologie et les «fondamentaux» du métier, utiles aux cursus de formation professionnelle.
Table des matières
CHAPITRE I
INTRODUCTION
CHAPITRE II
SHAMING ET MÉTHODES D’ENQUÊTE « DÉLOYALES »
CHAPITRE III
DES JOURNALISTES D’INVESTIGATION FACE AU « 5E POUVOIR »
CHAPITRE IV
AUX ORIGINES DES MÉTHODES D’ENQUÊTE
CHAPITRE V
JOURNALISTES EN SUISSE ROMANDE : LES « FONDAMENTAUX » DU MÉTIER
CHAPITRE VI
CONCLUSION
ÉPILOGUE
MENACES DE PLAINTE : RÉSISTER SUR LE FOND… ET SUR LA FORME
ANNEXE
ENTRE « FONDAMENTAUX » ET RENOUVELLEMENT.
TÉMOIGNAGE DE SERENA TINARI
BIBLIOGRAPHIE
Presse
Interview de Gilles Labarthe, en français et italien, sur la RSI-Rete due, émission Diderot – Le voci dell’attualità, 18 mai 2021 : à écouter ici.
Interview de Gilles Labarthe autour du livre Mener l’enquête dans le bimensuel d’information tessinois Area
Un cane da guardia stanco e al guinzaglio
Un libro mette in luce le crescenti difficoltà che toccano il giornalismo d’inchiesta in Svizzera: il quarto potere è sotto pressione e imbavagliato da un esercito di comunicanti
La Svizzera un paese modello per la libertà di stampa? Non proprio secondo Gilles Labarthe, giornalista e ricercatore romando che ha da poco pubblicato un libro sull’inchiesta giornalistica nella Confederazione (Mener l’enquête, Antipodes). Una ricerca, frutto di un lavoro di dottorato all’Università di Neuchâtel, che tocca alcuni aspetti preoccupanti come le difficoltà d’accesso alle informazioni ufficiali, le intimidazioni giudiziarie e il rapporto di forza sempre più sfavorevole di fronte alla pletora di comunicanti professionisti impiegati dal settore pubblico e privato. Ciononostante, chi fa inchiesta sta sviluppando tutta una serie di metodi per liberarsi dal guinzaglio. In occasione dell’odierna giornata mondiale della libertà di stampa abbiamo cercato di approfondire alcuni di questi aspetti con l’autore della ricerca, lui stesso confrontato con queste problematiche nell’ambito della sua attività giornalistica.
Gilles Labarthe, lei è giornalista e ricercatore universitario. In che veste ha scritto il suo libro?
Mi sono basato su entrambi gli aspetti. Uno dei soggetti sui quali mi sono specializzato come giornalista è il settore dell’oro in Svizzera. Un settore molto importante, ma anche molto opaco. Ho cercato di ottenere dati e documenti ufficiali dai diversi attori pubblici coinvolti. L’accesso a queste informazioni da parte dell’amministrazione federale, però, mi è sempre stato negato. Spesso senza nessuna motivazione valida. A partire da questa esperienza personale, ho voluto capire in che modo questa prassi fosse sistematica e toccasse altri colleghi svizzeri. Ho posto tutta una serie di domande nell’ottica di un lavoro scientifico che ho poi svolto sia attraverso decine di interviste con giornalisti d’inchiesta in Svizzera, ma anche con un’osservazione partecipante nell’ambito di un film documentario a cui ho preso parte e che indagava proprio sul ruolo della Svizzera nel commercio mondiale di oro.
Quale è lo stato di salute del giornalismo d’inchiesta in Svizzera?
Ho percepito una sorta di paradosso. Da un lato, da qualche anno a questa parte, abbiamo assistito a un’ampia pubblicazione di informazioni riservate ottenute dai giornalisti tramite delle fughe di dati, dal fenomeno Wikileaks alle inchieste condotte dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo come i Panama Papers o i Paradise Papers. Queste inchieste, a cui hanno partecipato anche degli editori svizzeri, hanno dimostrato che vi è un forte interesse per questo tipo di giornalismo. D’altra parte, però, la gran parte delle persone che ho intervistato nell’ambito della mia ricerca hanno sottolineato che, in seno alla stampa elvetica, il giornalismo d’inchiesta vive una sorta di agonia. Si parla spesso della Svizzera come di un paese di libertà di stampa e d’informazione, ma la realtà che ho osservato è che la maggior parte dei giornalisti che ho intervistato e incontrato nel corso di questa ricerca hanno smesso di indagare: sono stati sottoposti a troppe pressioni, e sempre meno media sono disposti a pubblicare inchieste per paura delle minacce di azioni penali, misure cautelari o cause legali, che sono diventate sempre più sistematiche negli ultimi dieci anni.
Quali sono i motivi di questa agonia?
Diversi intervistati hanno evocato la mancanza di tempo e di mezzi messi a disposizione dagli editori. In maniera generale si fa riferimento ai fenomeni di ristrutturazione, riposizionamento editoriale, fusione o addirittura sparizione che hanno toccato i principali giornali elvetici negli ultimi anni. Sono state evocate anche le pressioni economiche come per esempio il potere d’influenza dei pubblicitari (settore bancario, del lusso, farmaceutico eccetera) che pesano in un contesto in cui questo tipo di entrate sono in forte calo. Poi vi è il rischio sempre più grande di beccarsi una denuncia o, semplicemente, la minaccia di una denuncia. Sul piano della pratica professionale, sono stati evocati alcuni punti problematici come la mancanza di presa di coscienza critica di fronte alle informazioni fornite da tutta una serie di attori, esterni alla professione, ma sempre più presenti nel campo giornalistico.
A chi si fa riferimento?
Penso soprattutto a quell’esercito di specialisti della comunicazione impiegati dall’amministrazione pubblica, dalle aziende e dai gruppi d’interesse. Trent’anni fa c’erano due responsabili comunicazione per giornalista; oggi c’è un giornalista ogni 20/30 portavoce o addetto alla comunicazione. Prima si potevano chiamare direttamente le persone a cui ci si voleva rivolgere. Oggi questo è quasi impossibile. Questi portavoce, spesso ex giornalisti, filtrano e a volte bloccano chi vuole porre domande scomode.
Nel libro si parla di quinto potere. Di che cosa si tratta?
La nozione di 5° potere è stata proposta da Tom Baistow negli anni 80 per descrivere la maniera con la quale una certa categoria di attori (funzionari dell’amministrazione, politici e i loro portaparola, responsabili della comunicazione del settore privato e di gruppi di pressione) influenzano e condizionano il lavoro giornalistico. Secondo Baistow un quinto potere composto da specialisti della comunicazione e del marketing è utilizzato dalle élites politiche ed economiche con lo scopo di controbilanciare il quarto potere, ossia il giornalismo. Una pressione che può essere esercitata in vari modi, più o meno espliciti, e che in un contesto di crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro dei giornalisti (soprattutto nella stampa locale) aumenta il rapporto di forza del quinto potere rispetto al quarto.
Quali sono i metodi utilizzati dal quinto potere?
Lo studio elabora una tipologia di dieci principali blocchi identificati sistematicamente dai giornalisti, che incidono sui loro mezzi d’inchiesta e persino sulla loro reputazione e identità professionale: si va ad esempio dalla canalizzazione delle richieste di informazioni al rinforzamento delle procedure d’accesso, fino ad arrivare all’esclusione di giornalisti “in lista nera” o a pratiche di cybersorveglianza. Vi è poi la prassi, sempre più in voga, della riscrittura: alcuni attori riescono a far modificare degli articoli, o persino a farli eliminare, facendo pressione su editori o direttori. Questa pratica avviene anche per i media del servizio pubblico, come la Rts. Ciò significa che con Internet e i siti web, una parte dell’informazione d’interesse pubblico che fa parte del nostro patrimonio tende a sparire o a essere sorvegliata e riscritta in permanenza. La pressione cresce: la paura di vedere le informazioni diffondersi sui social network spinge i soggetti toccati dalle inchieste a fermare i giornalisti il più rapidamente possibile, in particolare minacciandoli di misure cautelari (un divieto di pubblicazione di un articolo pronunciato da un giudice, ndr).
Di fronte a questa situazione, come reagisce chi fa inchiesta?
Ci sono varie possibilità. C’è chi è più collaborativo e chi cerca di districarsi in questa situazione attraverso tutta una serie di astuzie cercando, però, di non rompere i legami con gli attori ufficiali. C’è chi invece adotta metodi più conflittuali, considerando una perdita di tempo quella di confrontarsi con i canali della comunicazione ufficiale.
Lei parla anche di metodi creativi o sleali…
Questi metodi sleali dovrebbero essere usati solo come ultima risorsa, quando tutte le altre vie sono state esaurite, cioè le richieste di interviste fatte per telefono, email o lettera. Ma quando l’altra parte, ad esempio l’amministrazione federale, tace completamente e c’è un interesse pubblico a indagare, possono essere necessari altri mezzi. Questo significa investigare sotto copertura (non rivelare che sei un giornalista), rubare immagini e suoni, o sorprendere l’intervistato desiderato davanti a casa sua o in un evento pubblico dove sai che sarà presente. La mia ricerca descrive i principali metodi utilizzati e le loro conseguenze.
Questi metodi, però, sono sempre più indispensabili…
Una delle conclusioni di questo studio è che, di fronte alle pressioni, il giornalismo investigativo in Svizzera deve la sua sopravvivenza in parte alla sua capacità di reinventarsi, di sviluppare tattiche e soluzioni “creative”… e quindi, di rimanere sfuggente e difficile da controllare da parte dei poteri politici ed economici.
Le nuove tecnologie sono di certo uno strumento utile alle indagini. Sono anche un fattore di rischio?
L’importante mediatizzazione e il forte impatto delle inchieste collaborative transnazionali – spesso basate sul furto di dati informatici – hanno contribuito ad ancorare nel senso comune il fatto che le tecnologie digitali avrebbero permesso un rinforzamento dell’inchiesta giornalistica, anche a livello locale. L’idea è però discutibile. In effetti l’utilizzo delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione pongono tutta una serie di problematiche cruciali. Si va dal semplice rischio di essere confrontati a una sovrabbondanza di dati, le cui fonti e i fatti sono difficili da verificare, fino agli aspetti ancora più critici e sensibili legati alla sorveglianza numerica o alla protezione delle fonti. Vi è quindi questo doppio ruolo: utili e vantaggiose per facilitare la collaborazione, l’accesso alle fonti, l’archiviazione, ma anche molto rischiose e verso le quali occorre premunirsi.
La difficile trasparenza
Ad area lo abbiamo sperimentato più volte: la richiesta di accesso a documenti ufficiali tra-mite la legge federale sulla trasparenza (Ltrans) è un’operazione lunga e, spesso, poco producente. Gilles Labarthe avrebbe voluto dedicare le sue ricerche proprio sulla Ltrans. Ma così non è andata. «Avrei voluto analizzare come i giornalisti hanno integrato questa possibilità nella loro richiesta d’accesso alle informazioni, ma mi sono scontrato con qualche difficoltà. In particolare, la mancanza di volontà da parte dei funzionari incaricati dell’applicazione della Ltrans in seno ai vari dipartimenti dell’amministrazione. Ho quindi rinunciato orientandomi allo studio dell’evoluzione e dei metodi dell’in-chiesta giornalistica». Per il ricercatore la Ltrans è uno strumento ancora da migliorare: «Nelle mie interviste pochi giornalisti hanno evocato la Ltrans come uno strumento poco efficace. La portata della legge è infatti limitata: il segreto di Stato, il segreto degli affari, il segreto bancario limitano di molto l’accesso ai documenti. Inoltre, l’applicazione e l’interpretazione della Ltrans sono loro stesse condizionate da altri testi di legge e dispositivi giuridici, come quelli che intendono proteggere la sfera privata e che, di fatto, ne limitano l’applicazione. A questo va aggiunto che, spesso, la Ltrans è applicata con tempi lunghi e comporta anche il pagamento di spese amministrative. Ciò che, in un contesto di ristrettezze economiche, di concentrazione nel settore della stampa e di ritmi di lavoro accresciuti, rende complesso l’utilizzo della Ltrans come strumento dell’inchiesta».
di Federico Franchini, Area, 3 mai 2021
Pour la première fois, l’écrivain Christian Lecomte rencontre Gilles Labarthe, journaliste d’investigation, à écouter ici (RTS la 1ère, émission Premier rendez-vous du 3 mars 2021).
L’art de l’enquête en Suisse
A l’heure des réseaux sociaux où la circulation rapide de l’information prend le pas sur la vérification des contenus, il est bon de rappeler le rôle indispensable du journaliste d’investigation. Dans la thèse de doctorat réalisée à l’Académie du journalisme et des médias de l’UniNE (AJM), Gilles Labarthe a mené l’enquête sur… l’enquête journalistique en Suisse. Il en a tiré un ouvrage publié aux éditions Antipodes.
Quel est le comportement d’une équipe de tournage d’un film d’investigation TV confrontée à des refus d’accès aux sources ? Quand et comment prend-elle la décision de recourir à la caméra cachée, à des pratiques «innovantes» ou même, «déloyales»? Quelles sont les principales stratégies et tactiques déployées pour faire face à des fonctionnaires réticents, aux nouvelles contraintes économiques et technologiques, aux risques d’uniformisation des médias ?
A travers une approche socio-ethnographique liant observation participante, entretiens semi-directs et récits de pratiques, ce livre propose d’étudier en détail l’évolution récente des «arts de faire» de l’enquête que les journalistes mobilisent, en tant qu’acteurs sociaux inscrits dans les relations triangulaires entre médias, pouvoirs (politiques, institutionnels, économiques…) et public.
L’auteur montre que les professionnel·le·s de l’investigation journalistique entretiennent une «nécessaire indétermination» autour de leurs pratiques. Ils recourent à des techniques d’enquête implicites, mouvantes et créatives ; ceci, à la fois pour remédier aux désavantages d’une position précaire (manque de budget, de moyens…), pour contourner des problèmes d’accès aux informations gouvernementales, pour échapper à des tentatives de prise de contrôle sur leurs activités ou encore, plus récemment, pour déjouer les risques liés à la cybersurveillance.
Gilles Labarthe propose de nouveaux éléments de compréhension sur le journalisme d’investigation et ses enjeux actuels, un champ de recherche qui n’avait encore jamais été exploré de manière approfondie en Suisse, sous cet angle. Il apporte aussi de nouvelles notions et des clés de lecture concernant la déontologie et les «fondamentaux» du métier, utiles aux cursus de formation professionnelle.
Trait d’Union – La newsletter de l’Université de Neuchâtel, No 174, mars 2021
En quête d’investigation
Gilles Labarthe, journaliste d’investigation et chercheur, publie ces jours Mener l’enquête aux Editions Antipodes. Ce livre est le fruit de sa thèse de doctorat en journalisme à l’Université de Neuchâtel. L’auteur le précise lui-même, le lecteur peut facilement sauter l’introduction très théorique et se lancer à l’assaut de ce récit des « arts de faire, stratégies et tactiques d’investigation ». Il se pose des questions sur ses pratiques, comme « quel est le comportement d’une équipe de tournage d’un film d’investigation TV confrontée à des refus d’accès aux sources ? » Ou celles de journalistes romands qui témoignent de la difficulté d’obtenir de l’information des administrations et les contraintes économiques et technologiques qui mènent à l’uniformisation des médias.
Son approche socio-ethnographique lie l’observation participante, des entretiens semi-directs et des récits de pratiques. Gilles Labarthe montre que les professionnels de l’investigation journalistique entretiennent une « nécessaire indétermination autour de leurs pratiques ». « Ils recourent à des techniques d’enquête implicites, mouvantes et créatives », écrit l’auteur qui propose des clés de lecture sur la déontologie et les fondamentaux du métier. Il avait écrit trois ouvrages auparavant dont Le Togo, de l’esclavage au libéralisme mafieux ou L’Or africain : Pillages, trafics et commerce international. Les titres sont suffisamment explicites…
Jean-Luc Wenger, Vigousse, 12.11.2020
Gilles Labarthe invité de «Médialogues»
Collaborateur de «La Liberté», Gilles Labarthe était ce samedi au micro d’Antoine Droux dans l’émission «Médialogues», sur la 1ère. Il était invité pour parler de son nouveau livre, «Mener l’enquête», paru aux Editions Antipodes.
L’ouvrage, issu d’une recherche anthropologique conduite dans le cadre d’une thèse de doctorat, décortique les méthodes de l’investigation journalistique. Au cours de cet entretien d’une vingtaine de minutes, Gilles Labarthe a notamment évoqué la perfectible formation des journalistes d’enquête, mais aussi et surtout les stratégies mises en place par ces derniers pour aller chercher l’information, notamment celle que «certains acteurs veulent cacher».
Il en a profité pour thématiser également l’omniprésence, depuis une dizaine d’années, de communicants «qui noient les informations essentielles». Enfin, il a révélé les pressions que peuvent subir les journalistes qui touchent aux sujets sensibles, pressions dont il a lui-même été victime lorsqu’il s’intéressait au commerce de l’or.
La Liberté, 12.12.2020
Gilles Labarthe était l’invité d’Antoine Droux dans l’émission Médialogues, RTS1, 12.12.2020 >> Pour écouter l’émission
Lʹinvestigation journalistique décortiquée dans un livre
Gilles Labarthe signe « Mener lʹenquête » (éd. Antipodes), un ouvrage qui décortique les méthodes de lʹinvestigation journalistique. Lui-même journaliste et ethnologue, il livre à Antoine Droux son double regard précis dʹobservateur et dʹacteur de ce genre prestigieux, soumis à une très forte pression. Les professionnels doivent-ils parfois « se salir les mains » pour obtenir des informations dʹintérêt public, pour révéler des dysfonctionnement cachés? Un billard à trois bandes délicat entre médias, pouvoir (politique, institutionnel, économique) et public.
« Les pressions se renforcent »
Mener l’enquête, c’est l’ouvrage que notre collègue Gilles Labarthe vient de publier. Entretien
Journalisme » Dans un monde où l’on communique à tort et à travers, où les réseaux sociaux s’égosillent, où des armées de porte-parole prêchent en même temps qu’ils bloquent, où les fake news fleurissent, investiguer est essentiel. Pour autant, l’enquête journalistique s’avère un genre fragile – les rédactions manquent souvent de moyens pour en lancer. Plus surprenant, c’est une discipline peu enseignée pour les rédacteurs, qui s’y forment souvent sur le tas, de façon intuitive et créative, en s’appuyant bien sûr sur la Déclaration des devoirs et des droits des journalistes. Enfin, les procédés d’enquête n’ont que rarement fait l’objet de recherches scientifiques en Europe et jamais en Suisse. C’est ce que nous apprend Gilles Labarthe, ethnologue et journaliste à La Liberté, qui fait office de défricheur puisqu’il vient de publier Mener l’enquête, une version allégée mais néanmoins très complète de la thèse qu’il a soutenue en 2018 au sein de la Faculté des sciences économiques de l’Université de Neuchâtel. Soit un travail de recherche de plusieurs années sur l’art d’enquêter en Suisse romande. Où l’on apprendra que ce n’est pas une mince affaire…
Contrairement à ce que l’on pourrait croire, il est plus difficile d’enquêter aujourd’hui qu’il y a 30 ans. Pourquoi?
Gilles Labarthe: Les raisons sont multiples, mais un des facteurs est le renforcement massif, dans tous les domaines, des communicants dès les années 2000. J’ai mené des entretiens approfondis avec plusieurs journalistes en Suisse romande et le constat des plus anciens est sans appel. Il y a 30 ans, il y avait environ deux communicants pour un journaliste. Aujourd’hui, il y a un journaliste pour 20 à 30 porte-parole! Auparavant, nous pouvions appeler directement les personnes auxquelles nous souhaitions parler, c’est désormais quasiment impossible. Ces porte-parole, souvent d’anciens journalistes, nous filtrent et nous bloquent parfois. A cela s’ajoutent les menaces de plaintes ou de dédommagements, de plus en plus fréquentes. Les pressions se renforcent: la peur de voir des informations se répandre sur les réseaux sociaux pousse les sujets des investigations à stopper les journalistes au plus vite, notamment en les menaçant de mesures provisionnelles (interdiction de faire paraître un article prononcée par un juge, ndlr).
Vous montrez, depuis les années 1960, comment le travail des journalistes est plus ou moins facilité, selon le contexte général. La période 1989-2000, elle, annonce tout ce que les médias vivent aujourd’hui…
C’est effectivement une période charnière. Il y a une perte de repères politiques traditionnels avec la chute du mur de Berlin, mais aussi l’apparition des téléphones portables, une plus large utilisation d’internet dès 1994, les premières grosses crises financières pour les journaux, rimant avec disparitions (La Suisse, Le Journal de Genève) et concentration de titres. Et comme je le disais, c’est également durant cette période qu’émergent les professionnels de la communication, avec souvent des moyens financiers importants et une grande agressivité.
Vous parlez aussi des méthodes d’enquête dites déloyales (comme les caméras cachées) et évoquez l’expérience menée avec d’autres journalistes sur le rôle de la Suisse dans le commerce mondial de l’or. Et ça n’a pas été simple…
C’est vrai. Ces méthodes déloyales ne doivent être utilisées qu’en dernier recours, quand toutes les autres voies ont été épuisées, soit les demandes d’interview formulées par téléphone, par courriels, par lettres. Mais quand le silence de l’autre côté, en l’occurrence de l’Administration fédérale, est total et que l’intérêt public à enquêter est là, d’autres moyens peuvent être nécessaires. A savoir se mettre en immersion (ne pas révéler que l’on est journaliste, ndlr), voler des images, du son, attraper l’interlocuteur désiré devant sa maison ou lors d’une manifestation publique à laquelle on sait qu’il participera. Ces méthodes sont éprouvantes pour tout le monde et les deux parties y perdent, notamment en termes de relations de confiance.
Les journalistes le disent rarement, mais enquêter peut être très lourd…
Quand ça résiste, c’est bon signe, cela veut dire que l’on a touché à des choses que certains aimeraient cacher. Mais il est vrai que mener une enquête peut être pénible et l’on n’en sort pas toujours indemne. D’ailleurs sur la vingtaine de journalistes que j’ai interrogés, seuls deux en font encore. Les autres ont jeté l’éponge. Epuisés par les pressions, par les procès qui peuvent parfois s’éterniser. Le réalisateur français avec qui nous avons tourné notre documentaire sur l’or était abasourdi par les difficultés que nous avons connues en Suisse. On ne s’en rend pas toujours compte, mais en ce qui concerne la liberté de la presse, la Suisse est régulièrement condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme.
Aurélie Lebreau, La Liberté, le 30.12.2020
Liens audio et vidéo
Interview de Gilles Labarthe, en français et italien, sur la RSI-Rete due, émission Diderot – Le voci dell’attualità, 18 mai 2021 : à écouter ici.