Mener l’enquête

Arts de faire, stratégies et tactiques d'investigation

Labarthe, Gilles,

2020, 207 pages, ISBN:978-2-88901-179-7

Quel est le comportement d’une équipe de tournage d’un film d’investigation TV confrontée à des refus d’accès aux sources? Quand et comment prend-elle la décision de recourir à la caméra cachée, à des pratiques «innovantes» ou même, «déloyales»? Quelles sont les principales stratégies et tactiques déployées pour faire face à des fonctionnaires réticents, aux nouvelles contraintes économiques et technologiques, aux risques d’uniformisation des médias?

Format Imprimé - 29.00 CHF

Description

A travers une approche socio-ethnographique liant observation participante, entretiens semi-directs et récits de pratiques, ce livre propose d’étudier en détail l’évolution récente des «arts de faire» de l’enquête que les journalistes mobilisent, en tant qu’acteurs sociaux inscrits dans les relations triangulaires entre médias, pouvoirs (politiques, institutionnels, économiques…) et public.

L’auteur montre que les professionnel·le·s de l’investigation journalistique entretiennent une «nécessaire indétermination» autour de leurs pratiques. Ils recourent à des techniques d’enquête implicites, mouvantes et créatives; ceci, à la fois pour remédier aux désavantages d’une position précaire (manque de budget, de moyens…), pour contourner des problèmes d’accès aux informations gouvernementales, pour échapper à des tentatives de prise de contrôle sur leurs activités ou encore, plus récemment, pour déjouer les risques liés à la cybersurveillance.

Gilles Labarthe propose de nouveaux éléments de compréhension sur le journalisme d’investigation et ses enjeux actuels, un champ de recherche qui n’avait encore jamais été exploré de manière approfondie en Suisse, sous cet angle. Il apporte aussi de nouvelles notions et des clés de lecture concernant la déontologie et les «fondamentaux» du métier, utiles aux cursus de formation professionnelle.

Table des matières

CHAPITRE I
INTRODUCTION

CHAPITRE II
SHAMING ET MÉTHODES D’ENQUÊTE « DÉLOYALES »

CHAPITRE III
DES JOURNALISTES D’INVESTIGATION FACE AU « 5E POUVOIR »

CHAPITRE IV
AUX ORIGINES DES MÉTHODES D’ENQUÊTE

CHAPITRE V
JOURNALISTES EN SUISSE ROMANDE : LES « FONDAMENTAUX » DU MÉTIER

CHAPITRE VI
CONCLUSION

ÉPILOGUE
MENACES DE PLAINTE : RÉSISTER SUR LE FOND… ET SUR LA FORME

ANNEXE
ENTRE « FONDAMENTAUX » ET RENOUVELLEMENT.
TÉMOIGNAGE DE SERENA TINARI

BIBLIOGRAPHIE

Presse

Interview de Gilles Labarthe, en français et italien, sur la RSI-Rete due, émission Diderot – Le voci dell’attualità, 18 mai 2021 : à écouter ici.

 

Interview de Gilles Labarthe autour du livre Mener l’enquête dans le bimensuel d’information tessinois Area

Un cane da guardia stanco e al guinzaglio

Un libro mette in luce le crescenti difficoltà che toccano il giornalismo d’inchiesta in Svizzera: il quarto potere è sotto pressione e imbavagliato da un esercito di comunicanti

La Svizzera un paese modello per la libertà  di  stampa?  Non  proprio  secondo Gilles Labarthe, giornalista e ricercatore romando che ha da poco pubblicato   un   libro   sull’inchiesta   giornalistica  nella  Confederazione  (Mener  l’enquête,  Antipodes).  Una  ricerca,  frutto  di  un  lavoro  di  dottorato  all’Università  di  Neuchâtel,  che   tocca   alcuni   aspetti   preoccupanti   come   le   difficoltà   d’accesso   alle  informazioni  ufficiali,  le  intimidazioni  giudiziarie  e  il  rapporto  di  forza  sempre  più  sfavorevole  di  fronte  alla  pletora  di  comunicanti  professionisti impiegati dal settore pubblico  e  privato.  Ciononostante, chi fa inchiesta sta sviluppando tutta  una  serie  di  metodi  per  liberarsi  dal  guinzaglio.  In occasione  dell’odierna giornata    mondiale della libertà  di  stampa  abbiamo   cercato   di   approfondire   alcuni di questi aspetti con l’autore della ricerca, lui stesso confrontato con  queste  problematiche  nell’ambito della sua attività giornalistica.

Gilles Labarthe, lei è giornalista  e  ricercatore  universitario.  In  che  veste  ha  scritto  il  suo  libro?

Mi   sono   basato   su   entrambi   gli   aspetti.   Uno   dei   soggetti   sui  quali  mi  sono  specializzato  come  giornalista  è  il  settore  dell’oro  in  Svizzera.  Un  settore  molto   importante,   ma   anche   molto   opaco.   Ho   cercato   di   ottenere  dati  e  documenti  ufficiali  dai  diversi  attori  pubblici  coinvolti. L’accesso a queste informazioni da  parte  dell’amministrazione  federale,  però,  mi  è  sempre  stato  negato.  Spesso  senza  nessuna  motivazione  valida.  A  partire  da  questa  esperienza  personale,  ho  voluto  capire  in  che  modo  questa  prassi  fosse sistematica e toccasse altri colleghi svizzeri. Ho posto tutta una serie di domande nell’ottica di un  lavoro  scientifico  che  ho  poi  svolto  sia  attraverso  decine  di interviste con giornalisti d’inchiesta  in  Svizzera,  ma  anche  con un’osservazione partecipante nell’ambito di un film documentario a cui ho preso parte e che  indagava  proprio  sul  ruolo  della   Svizzera   nel   commercio   mondiale di oro.

Quale è lo stato di salute del giornalismo d’inchiesta in Svizzera?

Ho percepito una sorta di paradosso.  Da un lato,  da  qualche  anno  a  questa  parte,  abbiamo  assistito  a  un’ampia  pubblicazione  di  informazioni  riservate  ottenute  dai  giornalisti  tramite delle  fughe  di  dati,  dal  fenomeno  Wikileaks  alle  inchieste  condotte  dal  Consorzio  internazionale  di  giornalismo  investigativo come i Panama Papers o  i  Paradise  Papers.  Queste inchieste, a  cui  hanno  partecipato  anche  degli  editori  svizzeri,  hanno  dimostrato  che  vi  è  un forte interesse per questo tipo di giornalismo. D’altra parte, però, la gran  parte  delle  persone  che  ho intervistato nell’ambito della mia  ricerca  hanno  sottolineato  che,  in  seno  alla  stampa  elvetica,  il  giornalismo  d’inchiesta  vive una sorta di agonia. Si parla spesso della Svizzera come di un paese di libertà di stampa e d’informazione, ma la realtà che ho osservato è che la maggior parte dei  giornalisti  che  ho  intervistato  e  incontrato  nel  corso  di  questa  ricerca  hanno  smesso  di  indagare: sono stati sottoposti a troppe pressioni, e sempre meno media sono disposti a pubblicare  inchieste  per  paura  delle  minacce  di  azioni  penali,  misure  cautelari o cause legali, che sono diventate  sempre  più  sistematiche negli ultimi dieci anni.

Quali sono i motivi di questa agonia?

Diversi  intervistati  hanno  evocato la mancanza di tempo e di mezzi  messi  a  disposizione  dagli  editori.  In  maniera  generale  si  fa  riferimento  ai  fenomeni  di   ristrutturazione,   riposizionamento  editoriale,  fusione  o  addirittura  sparizione  che  hanno  toccato  i  principali  giornali  elvetici  negli  ultimi  anni.  Sono  state  evocate  anche  le  pressioni  economiche  come  per  esempio  il  potere  d’influenza  dei  pubblicitari  (settore  bancario,  del  lusso,    farmaceutico    eccetera)    che  pesano  in  un  contesto  in  cui  questo  tipo  di  entrate  sono  in  forte  calo.  Poi  vi  è  il  rischio  sempre  più  grande  di  beccarsi  una  denuncia  o,  semplicemente, la minaccia di una denuncia. Sul  piano  della  pratica  professionale,  sono  stati  evocati  alcuni  punti  problematici  come  la  mancanza  di  presa  di  coscienza  critica  di  fronte  alle  informazioni  fornite  da  tutta  una  serie  di  attori,  esterni  alla  professione,  ma  sempre  più  presenti  nel  campo giornalistico.

A chi si fa riferimento?

Penso  soprattutto  a  quell’esercito  di  specialisti  della  comunicazione    impiegati    dall’amministrazione   pubblica,   dalle   aziende e dai gruppi d’interesse. Trent’anni  fa  c’erano  due  responsabili   comunicazione   per   giornalista;  oggi  c’è  un  giornalista   ogni   20/30   portavoce   o  addetto  alla  comunicazione.  Prima   si   potevano   chiamare   direttamente  le  persone  a  cui  ci si voleva rivolgere. Oggi questo  è  quasi  impossibile.  Questi  portavoce, spesso ex giornalisti, filtrano  e  a  volte  bloccano  chi  vuole porre domande scomode.

Nel libro si parla di quinto potere. Di che cosa si tratta?

La  nozione  di  5°  potere  è  stata  proposta  da  Tom  Baistow  negli  anni  80  per  descrivere  la  maniera con la quale una certa categoria  di  attori  (funzionari  dell’amministrazione,  politici  e  i  loro  portaparola,  responsabili  della comunicazione del settore privato  e  di  gruppi  di  pressione) influenzano e condizionano il  lavoro  giornalistico.  Secondo  Baistow  un  quinto  potere  composto   da   specialisti   della comunicazione e del marketing è utilizzato dalle élites politiche ed economiche con lo scopo di controbilanciare  il  quarto  potere,  ossia  il  giornalismo.  Una  pressione che può essere esercitata  in  vari  modi,  più  o  meno  espliciti, e che in un contesto di crescente  precarizzazione  delle  condizioni  di  lavoro  dei  giornalisti (soprattutto nella stampa locale)  aumenta  il  rapporto  di  forza del quinto potere rispetto al quarto.

Quali sono i metodi utilizzati dal quinto potere?

Lo  studio  elabora  una  tipologia  di  dieci  principali  blocchi  identificati sistematicamente dai giornalisti, che incidono sui loro mezzi d’inchiesta e persino sulla loro reputazione e identità professionale:  si  va  ad  esempio dalla canalizzazione delle richieste  di  informazioni  al  rinforzamento  delle  procedure  d’accesso, fino ad arrivare all’esclusione di  giornalisti  “in  lista  nera”  o  a  pratiche   di   cybersorveglianza.   Vi  è  poi  la  prassi,  sempre  più  in voga, della riscrittura: alcuni attori  riescono  a  far  modificare  degli  articoli,  o  persino  a  farli  eliminare,  facendo  pressione  su  editori o direttori. Questa pratica avviene anche per i media del servizio  pubblico,  come  la  Rts.  Ciò significa che con Internet e i siti web, una parte dell’informazione  d’interesse  pubblico  che  fa  parte  del  nostro  patrimonio  tende a sparire o a essere sorvegliata e riscritta in permanenza. La  pressione  cresce:  la  paura  di  vedere  le  informazioni  diffondersi  sui  social  network  spinge  i soggetti toccati dalle inchieste a  fermare  i  giornalisti  il  più  rapidamente  possibile,  in  particolare  minacciandoli  di  misure  cautelari  (un  divieto  di  pubblicazione  di  un  articolo  pronunciato da un giudice, ndr).

Di fronte a questa situazione, come reagisce chi fa inchiesta?

Ci  sono  varie  possibilità.  C’è  chi  è  più  collaborativo  e  chi  cerca   di   districarsi   in   questa   situazione  attraverso  tutta  una  serie  di  astuzie  cercando,  però,  di non rompere i legami con gli attori  ufficiali.  C’è  chi  invece  adotta  metodi  più  conflittuali,  considerando   una   perdita   di   tempo   quella   di   confrontarsi   con i canali della comunicazione ufficiale.

Lei parla anche di metodi creativi o sleali…

Questi  metodi  sleali  dovrebbero essere usati solo come ultima risorsa,  quando  tutte  le  altre  vie  sono  state  esaurite,  cioè  le  richieste  di  interviste  fatte  per  telefono,  email  o  lettera.  Ma  quando  l’altra  parte,  ad  esempio  l’amministrazione  federale,  tace  completamente  e  c’è  un  interesse  pubblico  a  indagare,  possono   essere   necessari   altri   mezzi.   Questo   significa   investigare   sotto   copertura   (non   rivelare  che  sei  un  giornalista),  rubare immagini e suoni, o sorprendere   l’intervistato   desiderato  davanti  a  casa  sua  o  in  un  evento  pubblico  dove  sai  che  sarà presente. La mia ricerca descrive i principali metodi utilizzati e le loro conseguenze.

Questi metodi, però, sono sempre più indispensabili…

Una  delle  conclusioni  di  questo  studio  è  che,  di  fronte  alle  pressioni,   il   giornalismo   investigativo  in  Svizzera  deve  la  sua  sopravvivenza  in  parte  alla  sua  capacità  di  reinventarsi,  di  sviluppare  tattiche  e  soluzioni  “creative”…  e  quindi,  di  rimanere   sfuggente   e   difficile   da   controllare  da  parte  dei  poteri  politici ed economici.

Le  nuove tecnologie sono di certo uno strumento utile alle indagini. Sono anche un  fattore di rischio?

L’importante  mediatizzazione  e  il  forte  impatto  delle  inchieste  collaborative   transnazionali   –   spesso  basate  sul  furto  di  dati  informatici  –  hanno  contribuito  ad  ancorare  nel  senso  comune  il  fatto  che  le  tecnologie  digitali  avrebbero  permesso  un  rinforzamento       dell’inchiesta       giornalistica,   anche   a   livello   locale.  L’idea  è  però  discutibile.  In  effetti  l’utilizzo  delle  tecnologie   della   comunicazione   e   dell’informazione   pongono   tutta  una  serie  di  problematiche  cruciali.  Si  va  dal  semplice  rischio  di  essere  confrontati  a  una  sovrabbondanza  di  dati,  le  cui  fonti  e  i  fatti  sono  difficili  da  verificare,  fino  agli  aspetti  ancora  più  critici  e  sensibili  legati  alla  sorveglianza  numerica  o alla protezione delle fonti. Vi è  quindi  questo  doppio  ruolo:  utili e vantaggiose per facilitare la  collaborazione,  l’accesso  alle  fonti, l’archiviazione, ma anche molto  rischiose  e  verso  le  quali  occorre premunirsi.

La difficile trasparenza
Ad area lo abbiamo sperimentato più volte: la richiesta  di  accesso  a  documenti  ufficiali  tra-mite la legge federale sulla trasparenza (Ltrans) è un’operazione lunga e, spesso, poco producente. Gilles Labarthe avrebbe voluto dedicare le  sue  ricerche  proprio  sulla  Ltrans.  Ma  così  non  è  andata.  «Avrei  voluto  analizzare  come  i  giornalisti  hanno  integrato  questa  possibilità  nella  loro  richiesta  d’accesso  alle  informazioni,  ma  mi  sono  scontrato  con  qualche  difficoltà.  In  particolare,  la  mancanza  di  volontà  da  parte  dei funzionari incaricati dell’applicazione della Ltrans  in  seno  ai  vari  dipartimenti  dell’amministrazione. Ho quindi rinunciato orientandomi allo  studio  dell’evoluzione  e  dei  metodi  dell’in-chiesta giornalistica». Per il ricercatore la Ltrans è uno strumento ancora da migliorare: «Nelle mie  interviste  pochi  giornalisti  hanno  evocato  la  Ltrans  come  uno  strumento  poco  efficace.  La  portata della legge è infatti limitata: il segreto di Stato,  il  segreto  degli  affari,  il  segreto  bancario  limitano di molto l’accesso ai documenti. Inoltre, l’applicazione  e  l’interpretazione  della  Ltrans  sono loro stesse condizionate da altri testi di legge e dispositivi giuridici, come quelli che intendono proteggere  la  sfera  privata  e  che,  di  fatto,  ne  limitano l’applicazione. A questo va aggiunto che, spesso, la Ltrans è applicata con tempi lunghi e comporta anche il pagamento di spese amministrative.  Ciò  che,  in  un  contesto  di  ristrettezze  economiche,  di  concentrazione  nel  settore  della  stampa  e  di  ritmi  di  lavoro  accresciuti,  rende  complesso l’utilizzo della Ltrans come strumento dell’inchiesta».

di Federico Franchini, Area, 3 mai 2021

 

Pour la première fois, l’écrivain Christian Lecomte rencontre Gilles Labarthe, journaliste d’investigation, à écouter ici (RTS la 1ère, émission Premier rendez-vous du 3 mars 2021).

 

 

L’art de l’enquête en Suisse

A l’heure des réseaux sociaux où la circulation rapide de l’information prend le pas sur la vérification des contenus, il est bon de rappeler le rôle indispensable du journaliste d’investigation. Dans la thèse de doctorat réalisée à l’Académie du journalisme et des médias de l’UniNE (AJM), Gilles Labarthe a mené l’enquête sur… l’enquête journalistique en Suisse. Il en a tiré un ouvrage publié aux éditions Antipodes.

Quel est le comportement d’une équipe de tournage d’un film d’investigation TV confrontée à des refus d’accès aux sources ? Quand et comment prend-elle la décision de recourir à la caméra cachée, à des pratiques «innovantes» ou même, «déloyales»? Quelles sont les principales stratégies et tactiques déployées pour faire face à des fonctionnaires réticents, aux nouvelles contraintes économiques et technologiques, aux risques d’uniformisation des médias ?

A travers une approche socio-ethnographique liant observation participante, entretiens semi-directs et récits de pratiques, ce livre propose d’étudier en détail l’évolution récente des «arts de faire» de l’enquête que les journalistes mobilisent, en tant qu’acteurs sociaux inscrits dans les relations triangulaires entre médias, pouvoirs (politiques, institutionnels, économiques…) et public.

L’auteur montre que les professionnel·le·s de l’investigation journalistique entretiennent une «nécessaire indétermination» autour de leurs pratiques. Ils recourent à des techniques d’enquête implicites, mouvantes et créatives ; ceci, à la fois pour remédier aux désavantages d’une position précaire (manque de budget, de moyens…), pour contourner des problèmes d’accès aux informations gouvernementales, pour échapper à des tentatives de prise de contrôle sur leurs activités ou encore, plus récemment, pour déjouer les risques liés à la cybersurveillance.

Gilles Labarthe propose de nouveaux éléments de compréhension sur le journalisme d’investigation et ses enjeux actuels, un champ de recherche qui n’avait encore jamais été exploré de manière approfondie en Suisse, sous cet angle. Il apporte aussi de nouvelles notions et des clés de lecture concernant la déontologie et les «fondamentaux» du métier, utiles aux cursus de formation professionnelle.

Trait d’Union – La newsletter de l’Université de Neuchâtel, No 174, mars 2021

 

 

En quête d’investigation

Gilles Labarthe, journaliste d’investigation et chercheur, publie ces jours Mener l’enquête aux Editions Antipodes. Ce livre est le fruit de sa thèse de doctorat en journalisme à l’Université de Neuchâtel. L’auteur le précise lui-même, le lecteur peut facilement sauter l’introduction très théorique et se lancer à l’assaut de ce récit des « arts de faire, stratégies et tactiques d’investigation ». Il se pose des questions sur ses pratiques, comme « quel est le comportement d’une équipe de tournage d’un film d’investigation TV confrontée à des refus d’accès aux sources ? » Ou celles de journalistes romands qui témoignent de la difficulté d’obtenir de l’information des administrations et les contraintes économiques et technologiques qui mènent à l’uniformisation des médias. 

Son approche socio-ethnographique lie l’observation participante, des entretiens semi-directs et des récits de pratiques. Gilles Labarthe montre que les professionnels de l’investigation journalistique entretiennent une « nécessaire indétermination autour de leurs pratiques ». « Ils recourent à des techniques d’enquête implicites, mouvantes et créatives », écrit l’auteur qui propose des clés de lecture sur la déontologie et les fondamentaux du métier. Il avait écrit trois ouvrages auparavant dont Le Togo, de l’esclavage au libéralisme mafieux ou L’Or africain : Pillages, trafics et commerce international. Les titres sont suffisamment explicites…

Jean-Luc Wenger, Vigousse, 12.11.2020

 

 

Gilles Labarthe invité de «Médialogues»

Collaborateur de «La Liberté», Gilles Labarthe était ce samedi au micro d’Antoine Droux dans l’émission «Médialogues», sur la 1ère. Il était invité pour parler de son nouveau livre, «Mener l’enquête», paru aux Editions Antipodes.

L’ouvrage, issu d’une recherche anthropologique conduite dans le cadre d’une thèse de doctorat, décortique les méthodes de l’investigation journalistique. Au cours de cet entretien d’une vingtaine de minutes, Gilles Labarthe a notamment évoqué la perfectible formation des journalistes d’enquête, mais aussi et surtout les stratégies mises en place par ces derniers pour aller chercher l’information, notamment celle que «certains acteurs veulent cacher».

Il en a profité pour thématiser également l’omniprésence, depuis une dizaine d’années, de communicants «qui noient les informations essentielles». Enfin, il a révélé les pressions que peuvent subir les journalistes qui touchent aux sujets sensibles, pressions dont il a lui-même été victime lorsqu’il s’intéressait au commerce de l’or.

La Liberté, 12.12.2020

 

Gilles Labarthe était l’invité d’Antoine Droux dans l’émission Médialogues, RTS1, 12.12.2020 >> Pour écouter l’émission

Lʹinvestigation journalistique décortiquée dans un livre

Gilles Labarthe signe « Mener lʹenquête » (éd. Antipodes), un ouvrage qui décortique les méthodes de lʹinvestigation journalistique. Lui-même journaliste et ethnologue, il livre à Antoine Droux son double regard précis dʹobservateur et dʹacteur de ce genre prestigieux, soumis à une très forte pression. Les professionnels doivent-ils parfois « se salir les mains » pour obtenir des informations dʹintérêt public, pour révéler des dysfonctionnement cachés? Un billard à trois bandes délicat entre médias, pouvoir (politique, institutionnel, économique) et public.

 

 

« Les pressions se renforcent »

Mener l’enquête, c’est l’ouvrage que notre collègue Gilles Labarthe vient de publier. Entretien 

Journalisme » Dans un monde où l’on communique à tort et à travers, où les réseaux sociaux s’égosillent, où des armées de porte-parole prêchent en même temps qu’ils bloquent, où les fake news fleurissent, investiguer est essentiel. Pour autant, l’enquête journalistique s’avère un genre fragile – les rédactions manquent souvent de moyens pour en lancer. Plus surprenant, c’est une discipline peu enseignée pour les rédacteurs, qui s’y forment souvent sur le tas, de façon intuitive et créative, en s’appuyant bien sûr sur la Déclaration des devoirs et des droits des journalistes. Enfin, les procédés d’enquête n’ont que rarement fait l’objet de recherches scientifiques en Europe et jamais en Suisse. C’est ce que nous apprend Gilles Labarthe, ethnologue et journaliste à La Liberté, qui fait office de défricheur puisqu’il vient de publier Mener l’enquête, une version allégée mais néanmoins très complète de la thèse qu’il a soutenue en 2018 au sein de la Faculté des sciences économiques de l’Université de Neuchâtel. Soit un travail de recherche de plusieurs années sur l’art d’enquêter en Suisse romande. Où l’on apprendra que ce n’est pas une mince affaire…

Contrairement à ce que l’on pourrait croire, il est plus difficile d’enquêter aujourd’hui qu’il y a 30 ans. Pourquoi?

Gilles Labarthe: Les raisons sont multiples, mais un des facteurs est le renforcement massif, dans tous les domaines, des communicants dès les années 2000. J’ai mené des entretiens approfondis avec plusieurs journalistes en Suisse romande et le constat des plus anciens est sans appel. Il y a 30 ans, il y avait environ deux communicants pour un journaliste. Aujourd’hui, il y a un journaliste pour 20 à 30 porte-parole! Auparavant, nous pouvions appeler directement les personnes auxquelles nous souhaitions parler, c’est désormais quasiment impossible. Ces porte-parole, souvent d’anciens journalistes, nous filtrent et nous bloquent parfois. A cela s’ajoutent les menaces de plaintes ou de dédommagements, de plus en plus fréquentes. Les pressions se renforcent: la peur de voir des informations se répandre sur les réseaux sociaux pousse les sujets des investigations à stopper les journalistes au plus vite, notamment en les menaçant de mesures provisionnelles (interdiction de faire paraître un article prononcée par un juge, ndlr).

Vous montrez, depuis les années 1960, comment le travail des journalistes est plus ou moins facilité, selon le contexte général. La période 1989-2000, elle, annonce tout ce que les médias vivent aujourd’hui…

C’est effectivement une période charnière. Il y a une perte de repères politiques traditionnels avec la chute du mur de Berlin, mais aussi l’apparition des téléphones portables, une plus large utilisation d’internet dès 1994, les premières grosses crises financières pour les journaux, rimant avec disparitions (La Suisse, Le Journal de Genève) et concentration de titres. Et comme je le disais, c’est également durant cette période qu’émergent les professionnels de la communication, avec souvent des moyens financiers importants et une grande agressivité.

Vous parlez aussi des méthodes d’enquête dites déloyales (comme les caméras cachées) et évoquez l’expérience menée avec d’autres journalistes sur le rôle de la Suisse dans le commerce mondial de l’or. Et ça n’a pas été simple…

C’est vrai. Ces méthodes déloyales ne doivent être utilisées qu’en dernier recours, quand toutes les autres voies ont été épuisées, soit les demandes d’interview formulées par téléphone, par courriels, par lettres. Mais quand le silence de l’autre côté, en l’occurrence de l’Administration fédérale, est total et que l’intérêt public à enquêter est là, d’autres moyens peuvent être nécessaires. A savoir se mettre en immersion (ne pas révéler que l’on est journaliste, ndlr), voler des images, du son, attraper l’interlocuteur désiré devant sa maison ou lors d’une manifestation publique à laquelle on sait qu’il participera. Ces méthodes sont éprouvantes pour tout le monde et les deux parties y perdent, notamment en termes de relations de confiance.

Les journalistes le disent rarement, mais enquêter peut être très lourd…

Quand ça résiste, c’est bon signe, cela veut dire que l’on a touché à des choses que certains aimeraient cacher. Mais il est vrai que mener une enquête peut être pénible et l’on n’en sort pas toujours indemne. D’ailleurs sur la vingtaine de journalistes que j’ai interrogés, seuls deux en font encore. Les autres ont jeté l’éponge. Epuisés par les pressions, par les procès qui peuvent parfois s’éterniser. Le réalisateur français avec qui nous avons tourné notre documentaire sur l’or était abasourdi par les difficultés que nous avons connues en Suisse. On ne s’en rend pas toujours compte, mais en ce qui concerne la liberté de la presse, la Suisse est régulièrement condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme.

Aurélie Lebreau, La Liberté, le 30.12.2020

Liens audio et vidéo

Interview de Gilles Labarthe, en français et italien, sur la RSI-Rete due, émission Diderot – Le voci dell’attualità, 18 mai 2021 : à écouter ici.

 

 

Pour la première fois, l’écrivain Christian Lecomte rencontre Gilles Labarthe, journaliste d’investigation, à écouter ici (RTS la 1ère, émission Premier rendez-vous du 3 mars 2021).